C’era un bellissimo film uscito subito dopo la grande crisi dei mutui subprime, che si intitolava “Margin Call”. Nel cast Jeremy Irons interpreta il numero uno di una grande banca di investimento che decide di svendere tutti i titoli tossici della società in modo da salvarla dal fallimento, scatenando però una tempesta sui mercati finanziari. Irons giustifica la decisione dicendo di essere stato messo a capo della banca per la sua capacità di riconoscere quale musica si ballerà in futuro ma – di fronte al baratro prospettato ai suoi analisti – di prevedere solo silenzio per i mesi venire. A guardare i mercati sembra la musica stia nuovamente per finire.
Se gli amministratori delegati dei grandi fondi di investimento continuano a sfoggiare grandi sorrisi e calma olimpica, nel silenzio della sale operative più di un gestore suda freddo e cerca di capire come fare a infilare l’uscita della sala ballo, perché la colonna sonora che sta suonando inizia ad assomigliare in maniera assordante a quella che ci siamo ritrovati a ballare ai tempi della crisi di Atene. Ho già sentito più di commentatore confutare questa tesi, chiarendo che lo spread dei vecchi cari PIGS, cioè i Paesi del Sud Europa, non si sono mossi così tanto anche se la Lagarde – col solito timing sbagliato – se n’è uscita male, annunciando la fine degli acquisti pubblici dei titoli di Stato (il Pepp) e addirittura un possibile rialzo dei tassi. La verità è che più di un investitore ha già iniziato a scaricare debito sovrano, a questo punto considerato sovraprezzato, anche se la speculazione non è ancora subentrata. Del resto chi scommetterebbe ora contro la Banca Centrale Europea col Pepp?
Come scriveva Mauro Bottarelli qualche giorno fa su Money.it c’è un angolo del mercato in cui la Bce non può intervenire. E che mostra segnali inquietanti, non fosse altro perché si pensavano ormai retaggio storico del biennio horribilis 2010-2011, quello della crisi greca. L’andamento dei credit default swaps sovrani di Italia, Spagna e Portogallo, ovvero i derivati che proteggono dal rischio di insolvenza di una controparte ha subito un’impennata: torna insomma nella testa degli investitori il rischio relativo alla possibile uscita dall’euro di un Paese e ritorno alla valuta sovrana. “Questo non significa affatto che il mercato creda a un’uscita di Italia, Spagna e Portogallo dalla moneta unica – spiega il giornalista –. Ciò che questo proxy ci offre è il canarino nella miniera della sostenibilità del debito di questi Paesi nel momento in cui verrà a mancare del tutto il sostegno della Bce nella compressione del premio di rischio.”
Se poi osserviamo l’andamento dell’indice dei credit default swap sulle imprese europee – cioè delle assicurazioni contro il fallimento delle aziende – anche queste stanno subendo un’impennata: i mercati scommettono che quelle aziende che già erano in bilico, con il prossimo aumento dei tassi falliranno e contestualmente, puntano sul settore azionario. Però, come ha mostrato Marco Liera qualche giorno fa sul proprio profilo Instagram, anche su quel fronte questo è il momento peggiore, almeno negli Usa, per alzare i tassi: il rapporto prezzo / utili sulle azioni per l’indice Standard & Poor’s 500 è alle stelle. Questo indicatore misura quante volte il prezzo dell’azione incorpora gli utili attesi e quindi quante volte l’utile della società è contenuto nel valore: oggi a siamo a quota oltre 16 volte, uno dei più alti dal 1971. Praticamente una bolla. Che, generalmente, con i rialzi dei tassi, scoppia.
Le banche centrali ormai non possono più comprare tempo. La Fed l’ha capito e gli Usa sembrano aver digerito la realtà. Lagarde continua a fare un passo avanti e due indietro, ma con l’inflazione prossima al 5% non ci sono grosse alternative, i tassi saliranno. Da allora ci sarà da allacciare le cinture, la musica della quatitative easing sta per finire e gli investitori hanno già iniziato a fare il gioco del cerino. A pagare, alla fine, saranno sempre gli stessi: gli Stati e i contribuenti.













