L’affermazione può sembrare forte, ma nella sostanza è vera: i conti del Giappone – sulla carta – sono decisamente peggiori di quelli della bistrattata Grecia, eppure i titoli di Stato emessi da Tokyo sono stimatissimi sui mercati. Atene, invece, è stata messa al bando dagli investitori. Per carità, paragonare i due Paesi, è come mettere a confronto Davide e Golia, eppure, per quanto paradossale, l’accostamento della grande potenza asiatica con il piccolo e disastrato Paese del Sud Europa non è tanto assurdo come sembra.
Con un debito pubblico sul Pil del 230% e un deficit statale del 10% il Giappone mostra dei “fondamentali” ben peggiori di Atene, che ha un indebitamento del 190% e un disavanzo che si ferma al 9%. Insomma secondo i parametri utilizzati dalla Ue, la Grecia sarebbe più virtuosa di Tokyo.
Eppure, presso gli investitori, la percezione è diametralmente opposta: la Repubblica ellenica non può nemmeno avvicinarsi ai mercati finanziari perché i suoi titoli di Stato vengono rifiutati, a meno che non offrano tassi d’interesse a doppia cifra. Viceversa l’Impero del Sol Levante si finanzia allo 0,78%. Un’ingiustizia? Solo in apparenza.
Infatti, nonostante l’indebitamento più alto e il progressivo deterioramento della finanza pubblica, il Giappone ha numerosi vantaggi rispetto alla Grecia. Innanzitutto ha un sistema industriale capace ancora di esportare, minacciato dai coreani ma ancora forte. Poi ha un sistema fiscale funzionante, che rende credibile un forte aumento della tassazione in futuro.
Soprattutto, però, il Giappone prende a prestito principalmente nella propria valuta, perciò ha sempre l’opzione di monetizzare il proprio debito. Infine i giapponesi sono sempre stati grandi risparmiatori e, quindi, la stragrande maggioranza del debito è detenuto internamente. È come se lo Stato giapponese finanziasse il proprio debito in moneta e i suoi cittadini, obbedienti, invece di spendere questa moneta la conservassero sotto al classico materasso.
Di fronte a questo scenario la speculazione è timorosa. Chi gioca al ribasso rischia, infatti, molto: a fronte di guadagni incerti chi scommette contro Tokyo ha una percentuale alta di possibilità di andare incontro a perdite infinite. I ribassisti, notoriamente, si muovono solo quando vedono possibilità di guadagno a breve termine. È infatti pericoloso tenere aperte posizioni corte per un lasso di tempo eccessivamente lungo. Con una Banca del Giappone seriamente impegnata in massicci acquisti di titoli pubblici il rischio di perdite per la speculazione short è troppo elevata. Per questo i ribassisti aspettano. Il mercato è anestetizzato dalla Banca Centrale perciò il Giappone, pur avendo “fondamentali” ben peggiori della Grecia, gode di credito illimitato.
Allo stesso modo, se oggi anche Atene potesse farsi forte di una banca centrale in grado di difendere il Paese (e la Bce potrebbe, potenzialmente, realizzare interventi infinitamente più incisivi rispetto a quanto è stato fatto fino ad oggi nel Paese del Sol Levante), la Grecia avrebbe più tempo per riorganizzare il proprio sistema industriale senza i tremendi sacrifici imposti alle imprese e ai cittadini. Perché allora la Banca Centrale Europea non viene messa in condizione di intervenire?
Lo stesso discorso vale ovviamente per Spagna, Portogallo e Italia. Perché gli Stati dell’Unione Europea – invece di ricorrere a manovre recessive – non possono affidarsi all’intervento della Bce sui mercati per combattere la speculazione?
La redazione
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