Gli Usa sembrano rassegnati a un’invasione dell’Ucraina ad opera della Russia. E sono già pronti con un librone grande così di sanzioni economiche da applicare al Paese guidato da Putin. Le drastiche misure in preparazione – provvedimenti di alto profilo su banche e finanza, energia e tecnologia – sono in realtà una partita incerta e ad alto rischio: in gioco è come non mai l’efficacia di uno strumento dalla storia contrastata in termini di esiti e ostaggio di ostacoli fuori e dentro i confini americani. Testimone ne è l’acceso dibattito nel mondo politico, accademico e dell’intelligence statunitense ancora alla vigilia del loro possibile utilizzo.

Cia e Pentagono, spiegava qualche giorno fa Marco Valsania sulle pagine del Sole 24 Ore, premono per far partire le sanzioni il prima possibile, mentre altri sono meno convinti. “Avvertono – scriveva Valsania – che proprio l’esperienza della Crimea – con azioni contro 775 tra persone e entità russe – mostra i limiti comuni a troppe simili strategie: non hanno cambiato il corso di Mosca. È una tesi sposata da Nicholas Mulder, fresco della pubblicazione di “The Economic Weapon: “The Rise of Sanctions as a Tool of Modern War”. In interviste e articoli ha citato il passato “misto” delle sanzioni nel prevenire guerre e aggressioni invocando piuttosto modelli particolari di regimi sanzionatori, caratterizzati da incentivi: l’esempio usato è l’Iran, dove l’amministrazione di Barack Obama strappò concessioni in cambio dell’eliminazione di sanzioni. Al centro del rebus pone la difficoltà di calibrarle: troppo deboli e sono vuote, troppo forti e si fanno impraticabili e poco credibili. Il manuale del think tank Council on Foreign Relations da parte sua prescrive un approccio complessivo, che combini azioni punitive e incentivi e sia flessibile, con obiettivi raggiungibili e sostegno multilaterale.”

E incognite su unità di intenti non mancano neppure sul “fronte” domestico, aggiunge Valsania: il Congresso Usa non ha saputo varare una promessa legge-madre di tutti i regimi sanzionatori a supporto della Casa Bianca, arenata su polemiche tra democratici e repubblicani. I primi chiedevano provvedimenti anzitutto in caso di invasione dell’Ucraina, i secondi fin da subito. Ne è uscita una semplice risoluzione di condanna del Cremlino e assicurazioni che il Presidente può sfoderare sanzioni, senza bisogno del Congresso, grazie a poteri d’emergenza. Lo stesso Biden, in un’ammissione di sfide interne da superare, ha ammonito il Paese che le sanzioni non saranno «indolori». In gioco sono prezzi dell’energia e forniture di materiali chiave quali titanio (per Boeing) e palladio (per l’auto). Oltre 1.100 aziende Usa hanno fornitori diretti in Russia.

“L’impatto su Mosca, temono alcuni analisti, potrebbe essere parzialmente attutito dalla strategia di “Fortezza Russia” seguita da Putin dopo la presa della Crimea per proteggere Mosca da sanzioni – aggiunge ancora Valsania –. E inanellano i dati: indebitamento estero ridotto a 478 miliardi da 733, rapporto debito/Pil al 18%, riserve in oro e valute pregiate quasi raddoppiate a 630 miliardi, rapporti con la Cina intensificati con un interscambio che supera i cento miliardi l’anno. Senza contare un sistema domestico per le transazioni finanziarie, pur con limitato raggio d’azione internazionale.”

Nuove sanzioni potrebbero far leva su importanti punti di forza: tra questi l’hi-tech, i chip per i quali Mosca dipende dall’estero e necessari a progressi strategici dall’aerospazio all’intelligenza artificiale. Sempre che, ha avvertito Jeffrey Schott del Peterson Institute, un blocco sia ampio e condiviso dall’Europa all’Asia. Soprattutto, però, questo non cancella la lunga parabola delle sanzioni, che invita alla sobrietà. Coltivate, nella versione moderna, dall’Europa quale deterrente all’indomani della Prima Guerra mondiale, gli Usa ne hanno assunto la leadership dagli anni Quaranta e oggi hanno più d’una ventina di programmi attivi. Nel post 11 settembre 2001 l’avversione a nuove guerre li ha ulteriormente invigoriti, con un’evoluzione verso target precisi – le “smart sanctions”. Alcuni studi hanno tuttavia suggerito che solo tra il 5% e il 30% delle sanzioni porta i cambiamenti desiderati. Percentuali alle quali oggi si aggrappano le speranze di mettere a tacere i tamburi di guerra ai confini dell’Ucraina.

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