Un paio di giorni fa lo spread è tornato a galleggiare intorno a quota 300 punti – anche se le fibrillazioni nella maggioranza che sostiene il Governo oggi hanno spinto nuovamente il differenziale verso i 330 punti – e le Borse hanno mostrato qualche allegria.
In molti, a cominciare da alcuni esponenti del Governo, si sono lasciati andare a un sorriso. Quasi che il peggio fosse alle nostre spalle. Un ritornello che abbiamo sentito molte volte negli ultimi quattro anni. A dare una mano ai mercati sono stati due elementi: l’accordo di massima con la Grecia e la vigilanza della Bce sui titoli di Stato, probabilmente accompagnatoi da qualche acquisto mirato. Per il resto però è tutto come prima. Lo dimostra il fatto che a Bruxelles non è stato raggiunto l’accordo sull’Unione bancaria.
Ancora una volta a puntare i piedi è stata la Germania. La signora Merkel non vuole che le sue Casse di Risparmio e gli altri Istituti di minori dimensioni siano sottoposti alla vigilanza della Bce. Preferisce gestire i controlli in casa lasciando agli sceriffi europei il controllo sugli istituti di sistema. Una posizione che, senza fare molto strepito, è condivisa anche dall’Italia. Non è nemmeno un’idea tanto balzana: in effetti applicare gli stessi criteri patrimoniali a una multinazionale del credito e a una banca territoriale può creare forti distorsioni. Per la semplice ragione che i colossi operano sui mercati finanziari internazionali mentre le realtà minori si occupano principalmente di finanziare famiglie e piccole imprese.
Tuttavia la conclusione negativa del vertice sull’Unione Bancaria conferma, caso mai ve ne fosse bisogno, che la Ue procede secondo un’immagine molto cara agli inglesi e cioè spingendo con il piede la lattina lungo la discesa. Noi, in Italia, diremmo che l’Europa “tira a campare”. Il calo dello spread, infatti, è solo il contenimento di un sintomo, non la cura della malattia. L’Italia non mostra attualmente nessun segno di miglioramento nonostante l’ottimismo fatto trapelare nei giorni scorsi dal ministero dell’Economia.
In consumi continuano a calare così come in Spagna (per non parlare della Grecia). Viceversa La Germania ha un avanzo corrente maggiore della Cina. L’Olanda, in termini relativi, fa meglio di tutti. Vuol dire che restano squilibri strutturali. Il Premio Nobel Paul Krugman, presentando il nostro manifesto la scorsa settimana, ha spiegato che questo squilibrio potrebbe essere curato solo se l’inflazione, nei Paesi del Nord, fosse doppia se non tripla rispetto all’orlo meridionale della Ue. Quanto alla Grecia è bene non farsi illusioni. Tre anni fa, probabilmente, sarebbe bastata una flebo immediata da 50 miliardi per anestetizzare la ferita e lasciare il tempo al governo di Atene di ristrutturare il sistema economico e finanziario. Invece è stata scelta la strada del gradualismo e del ricatto (aiuti contro riforme) con il risultato che il conto è già arrivato a 372 miliardi e chissà quando finirà. Nel frattempo sono stati chiesti alla popolazione altri sacrifici ormai socialmente insostenibili. Soprattutto per un Paese che, dall’inizio della crisi, ha già perso il 25% del suo Pil.
Ci stiamo avvicinando ad un punto in cui i modelli econometrici non funzionano più, ammesso che lo avessero fatto prima. Infatti quando il tasso di disoccupazione sale oltre certi livelli (e ad Atene viaggiamo intorno al 30%) l’involuzione sociale e politica diventa ingestibile. Dopo può accadere di tutto.
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La Redazione
(foto Flickr)













