Ospitiamo oggi un intervento inedito del fondatore di questo blog, Ernesto Preatoni, dedicato a un tema di cui si discute troppo poco. Dal Secondo Dopoguerra ad oggi l’economia italiana si è fondata sull’iniziativa degli imprenditori privati che hanno costruito dei gioielli. In molti casi però il passaggio generazionale non è riuscito e i manager non sono riusciti a sostituire i vecchi “padroni” alla guida dei poli d’eccellenza italiani.
Prima dell’estate fa sono stato ospite di Corrado Formigli – che ringrazio ancora per bella occasione di confronto – con il quale, nel corso della trasmissione Piazza Pulita, ho avuto la possibilità di ragionare sul tema delle disparità, tra chi ha e chi non ha, e di parlare del mondo del lavoro. Durante quell’intervista provavo a spiegare un concetto che resta, secondo me, ancora scarsamente esplorato dai professoroni di economia e sociologia ma che, vedrete, finirà per diventare sempre più attuale: mancano i vecchi “padroni”.
Quando dico “padroni” – una parola saltata fuori proprio a Piazza Pulita che a Formigli non era, giustamente piaciuta, perché in qualche modo disegna una sorta di tiranno convinto che i dipendenti non siano persone ma roba sua, da sfruttare a proprio piacimento – io intendo il vecchio imprenditore, quello che nell’impresa aveva messo tutti i propri denari e rischiato tutti i propri avere, che teneva ai propri dipendenti come ci teneva Olivetti, che conosceva il business come Del Vecchio conosce la filiera dell’occhialeria. Quando parlavo di padroni, intendevo un vecchio modo e un vecchio stile di essere imprenditori, con le radici ben piantate nel business dell’impresa e nell’impresa stessa. Il vecchio padrone non vedeva la possibilità di fallire come un’opzione: se fosse fallita la sua impresa, sarebbe fallito anche lui, come persona.
Uno dei problemi più grandi dell’economia globalizzata è che queste figure nelle grandi imprese sono state – nella stragrande maggioranza dei casi – sostituite da manager che saltano da un’impresa all’altra, ogni tre o quattro anni. Passano dalle telecomunicazioni all’energia oppure saltano dall’industria al gaming con la stessa naturalezza con cui Agnelli prendeva l’elicottero al Sestriere, senza neanche togliersi gli scarponi da sci, per fiondarsi a Portofino. Il loro unico obiettivo è preservare paghe faraoniche e cercare di non deludere le attese degli azionisti sull’ultima riga di bilancio ed eventuale dividendo. Se ce la fanno, bene. Altrimenti vengono garbatamente accompagnati alla porta con una buonuscita milionaria: se ne vanno senza farne un dramma, nell’attesa che un cacciatore di teste li piazzi in qualche altra impresa. Nel frattempo, le aziende che questi signori guidano proseguono incerte: vengono condotte tutte allo stesso modo, secondo lo stesso standard, il più delle volte sulla base di una serie di assunti appresi a questa o quell’università di prestigio. Non si prendono responsabilità e, se la società va male, chiedono a consulente di scrivere un nuovo business plan (anche quelli, tutti fatti con lo stampino). E se c’è da tagliare posti di lavoro, nessuno scrupolo.
Su Repubblica, tempo fa, era apparso un titolo di un articolo di Michele Serra che mi ha letteralmente folgorato: “Il capitalismo senza le persone”: “Potremmo definirlo capitalismo impersonale – scriveva Serra –. Non c’è più il padrone, che aveva un nome e un cognome, ci sono gli azionisti. Non ci sono più i lavoratori, ci sono le risorse. Non c’è più un portone al quale bussare, uno sportello al quale domandare, ci sono i call center. Non c’è più un nome di una ditta, da onorare o odiare, c’è l’algida distanza delle multinazionali, che poi si dirama e si dissolve nell’infinito frazionamento degli appalti, dei subappalti, delle agenzie interinali: così che non si sa mai chi ringraziare, mai chi mandare all’inferno.”
Un’economia che si basa su manager fotocopia strapagati, che saltabeccano da un’azienda all’altra, non potrà che finire male, lo penso da parecchio tempo. Mi fa piacere che se ne incominci a parlare. Anche perché – l’ho sempre detto – penso che gli imprenditori italiani, che, volenti o nolenti, replicano il modello del “vecchio padrone”, nella piccola e media impresa sono molti. Ci vorrebbe che lo Stato imparasse a valorizzarli anziché spremerli, sgravandoli in primo luogo dalla tassazione folle e poi dalla burocrazia kafkiana, che ha spinto molti di loro a scappare da questo Paese. Potrebbero essere un tassello importante di una ripresa di cui abbiamo bisogno come il pane.













